Antichi ricordi, continuazione

 

Roma, 12/04/2024

ANTICHI RICORDI, CONTINUAZIONE

 

Avevo cinque anni (era il 1946). Lo ricordo bene perché mamma e papà mi ripetevano spesso che l’anno dopo sarei andato a scuola, quella vera dove si studia, non come l’asilo, che detestavo cordialmente a causa del mio carattere asociale, dove si pensava solo a giocare. La guerra era finalmente terminata e il mio papà, che era prigioniero degli americani, era tornato a casa.

Prima del suo ritorno, la mamma ci teneva sempre viva la sua memoria in modi diversi ma sempre con lo stesso risultato (almeno per me) che era quello di un’attesa interminabile perché nei bambini la dimensione del tempo appare dilatata.

Un bel giorno di questa interminabile attesa, io mi trovavo in camera da letto (era l’unica vera stanza della mia casa di allora). Mia madre era portinaia e vivevamo, con la nonna (da parte di madre) in un seminterrato, che allora chiamavano scantinato. Mentre la nonna era in guardiola, la mamma sfaccendava per casa ed io gironzolavo per la stanza da letto, peraltro assai grande. Apro un attimo una parentesi per descrivere la mia casa di allora, chi vuole salti pure questa parte. La stanza aveva una finestra grande in alto esattamente a livello della strada (via Amerigo Vespucci) chiusa da sbarre verticali. Uscendo dalla porta si accedeva al corridoio che era, in realtà, un’altra stanza più piccola, di pianta quadrata con altre quattro porte. La prima, in fondo a sinistra, dava nel locale caldaia che riscaldava tutto il fabbricato. Attraversando tale locale si usciva da casa. Nel corridoio dormiva la nonna, mentre io, Anna, mia sorella più piccola di me di un anno, la mamma ed il papà dormivamo tutti in quella stanza. Io e Anna avevamo due lettini a destra e a sinistra del letto matrimoniale. Io dormivo sulla destra, accanto alla finestra; Anna sulla sinistra, dalla parte di mamma. Vicino a me c’era il papà.

Tornando al corridoio, le due porte sulla parete di fronte davano, quella di sinistra nel bagno (grande e spazioso), e quella di destra ad uno stanzino molto lungo ma stretto con una finestrella in alto che dava sul nostro cortile. Sulla destra c’era la porta che dava sulla cucina, molto grande, ma assai più lunga che larga. Questa terminava in una porta-finestra che dava sul nostro cortile privato. In un angolo del cortile c’erano due vasche di cemento appaiate con un tubo dal quale usciva giorno e notte, senza interruzione, una piccola quantità di acqua che impiegava un giorno ed una notte per riempire entrambe le vasche. Un tubo verticale rimovibile dal fondo, limitava il livello massimo dell’acqua scaricando quella in eccesso. Lì, nelcortile, c’erano anche i fili per stendere il bucato.

Chiusa questa pallosa parentesi torniamo al mio gironzolare per la stanza da letto con sempre questo senso di interminabile attesa del ritorno di mio padre dalla prigionia americana. La mamma ci aveva detto che il papà era di ritorno, stava in viaggio sulla nave e sarebbe presto arrivato. Solo che se ad un bambino si dice che un qualsiasi evento sta per accadere, lui si aspetta che sia di lì a poco e così quel viaggio di ritorno a me pareva interminabile (una settimana di navigazione). All’improvviso venne alla nostra finestra il portinaio del portone accanto, un uomo anziano un poco claudicante, ad annunciarci che il papà era sul lungotevere con due pesanti sacchi e lui doveva andare ad aiutarlo a portarne uno. Immaginate la nostra esultanza dopo l’interminabile attesa. Finalmente papà entrò in casa aiutato dal portinaio vicino con questi due grandi sacchi pesanti.

Uscito l’uomo tutti ci siamo dati da fare per vedere cosa c’era in quei sacchi. Lì dentro c’era ogni ben di Dio, tanta pasta, molte scatole di zollette di zucchero, tanti pacchetti di lamette da barba, tantissimi dolciumi di ogni tipo, tanto caffè da tostare e macinare e moltissime altre cose che non ricordo perché non rientravano nei miei interessi di bambino (ma certamente avranno interessato la mia mamma). Stando prigioniero in America, il papà aveva imparato l’Inglese americano. Al momento era disoccupato e doveva cercarsi un lavoro qualsiasi nel più breve tempo possibile per non pesare sulle spalle della mamma che già doveva badare a sua madre e a noi due (oltre che a sé stessa) con il solo magro stipendio del portierato ed una piccola pensione di nonna.

All’epoca il gas, che mancava da tempo immemorabile, non era ancora tornato e così la mamma si arrangiava a cucinare, a volte in cortile su un fornelletto a carbone, a volte in cucina sulla macchina del gas con le tavolette di “meta” come combustibile. Di fornelli elettrici neanche a parlarne poiché noi non avevamo un contatore della luce in quanto la portineria non pagava la corrente, però avevamo un limitatore di corrente che ci concedeva di accendere solo due luci di max. 40W ciascuna e quindi noi avevamo, in tutta la casa, lampadine a bassissimo wattaggio e la casa, di sera, era perciò sempre abbastanza oscura. Dopo un poco il papà ci annunciò che aveva trovato lavoro di meccanico, grazie alla sua conoscenza della lingua, presso una caserma occupata dagli inglesi. Doveva però andare via la mattina prima dell’alba e tornava a casa nel primo pomeriggio. Io andavo spesso a casa di un mio amichetto che abitava nel mio stesso piano seminterrato. Lì c’era luce in abbondanza, le lampadine erano forti in ogni stanza e non si doveva spegnere una luce per poterne accendere un’altra come a casa mia (lo stesso valeva per le altre case di altri miei amici). La casa aveva due camere e una delle due era subaffittata ad una signora con la figlia credo, diciottenne. L’affittuaria della casa si chiamava Ilde e viveva con suo figlio Nicola Ciavarella, che noi chiamavamo famigliarmente Nichi. Alla donna era stato concesso un posto alla manifattura dei tabacchi in quanto vedova di un martire delle fosse Ardeatine. Nichi aveva uno zio, fratello del suo papà (morto a causa di Pribke) che gli faceva da padre, ma non viveva  con loro. Andava saltuariamente a trovarli. Ricordo che era molto severo con Nichi e la cosa non mi piaceva perché ritenevo che, non essendo il padre non ne avesse alcun diritto; ma lui il diritto se lo prendeva da sé. Io non avrei sopportato quel modo di fare e mi sorprendevo che lo sopportasse pazientemente Nichi.

La mattina alle sette, d’inverno, veniva il fuochista a pulire la caldaia dalle scorie e dalla cenere ed accenderla poi. Una volta accesa e regolata se ne andava per tornare a circa l’ora di pranzo per una nuova carica di carbone. Poi tornava la sera per un’ultima carica forte che manteneva accesa la caldaia fino molto oltre la mezzanotte e perciò i termosifoni erano sempre caldi.

La proprietaria del fabbricato propose un giorno a mio padre di sostituire sia il fuochista che l’amministratore, pagandogli il servizio non certo come lo pagava ai due che lo svolgevano prima. Mio padre accettò le due incombenze e così imparai anch’io a fare il fuochista (in quel momento avevo terminato le elementari). Era però un lavoro che non mi dava soddisfazione perché troppo poco impegnativo. Quando facevo la terza elementare, mi donarono, per la “befana”, un bel meccano. Io mi ci divertivo tantissimo a costruire gru, teleferiche, carrelli che, tramite un lungo spago e una manovella, camminavano come una teleferica, però sul piano. Questo fece pensare ai miei che fossi versato per la meccanica e quindi decisero che, invece di fare le medie, dopo le elementari, avrei frequentato una scuola professionale per meccanici. Io non trovai nulla da obiettare, all’epoca. Poi mia madre, per aiutare l’istruzione scolastica mi comprò, un poco alla volta, un’enciclopedia monografica in otto grossi volumi (che ancora oggi possiedo, molto malridotti per l’uso intensivo che ne feci allora). Si chiamava “Enciclopedia del ragazzo italiano” (si sente ancora, nel nome, l’influenza del nazionalismo fascista) edita dalla Utet. Tale enciclopedia trattava monograficamente (non cioè come un dizionario enciclopedico), materie come Storia da quella egiziana fino a quella moderna, con una lunga parentesi su tutta la storia romana; biografie di grandi uomini tra scienziati e umanisti. Riassunti di grandi romanzi di grandi autori del passato, da Shakespeare a Manzoni, Dante ecc., grandi poeti con le loro principali opere. Poi ancora Scienze, Astronomia, Fisica, Chimica, Filosofia e poi, in ciascun volume, alla fine c’era un capitolo dedicato a cose che un ragazzo poteva fare in casa, solo con ciò che normalmente si trova in una casa per fare esperimenti e giochi di prestigio. Confesso che ben pochi me ne sono riusciti e quindi, quella parte era per me la meno interessante. Ho letteralmente divorato ogni volume più e più volte tanto che di ciascun argomento sapevo in quale volume cercare e pressappoco a che pagina andare. Ogni volume aveva quasi tutte le materie che ho nominato, organizzate per difficoltà crescente secondo il numero del volume. Nel primo le cose più semplici e appassionanti e via via sempre più complesse fino all’ottavo volume che narrava delle tecniche, allora più avanzate. L’unica materia mancante era la Matematica e quindi, tutte le cose scientifiche erano descritte esclusivamente in termini qualitativi; il che mi ha erroneamente portato allora a pensare che la matematica non servisse un gran chè.

Improvvisamente mia nonna fu colpita da un ictus che la semiparalizzò. Da quel momento visse seduta su una poltrona. Oggi si userebbe una sedia a rotelle ma all'epoca non era usuale. Mia nonna, fin da giovane, si lamentava di un lieve gonfiore sotto pelle su un lato della sua mammella sinistra ma nè lei stessa nè nessun altro dava peso alla cosa. Ma dopo l'ictus, (che allora si chiamava "trombosi"), quel lieve gonfiore esplose in un terribile cancro dopo vari decenni di latenza. Mia madre la curò e la accudì sempre con amore ma la sua situazione si aggravava sempre di più. Una brutta sera la situazione era così seria che mamma mandò a chiamare il prete. Venne don Schiaffino. Lui era il sacerdote addetto alle estreme unzioni. Un sacerdote veramente degno di tal nome. Lui celebrava la messa più importante della Domenica, ma non faceva "la predica". Questa la faceva, noiosa ed interminabile, il parroco don Arturo Monterumici. Egli venne dunque da noi e dette senz'altro l'estrema unzione alla nonna. Disse poi a mia madre, dall'alto della sua esperienza: "Non arriverà all'alba". Difatti, prima dell'alba mia nonna se ne andò lasciando un vuoto in famiglia. Torniamo ora ai miei studi.

Dunque, quando fu il momento, mi iscrissero all’istituto professionale Carlo Cattaneo, proprio di fronte casa mia. Le materie che ci insegnavano erano assai di più di quelle delle medie e assai più approfondite in quanto il ministero, ritenendo che chi usciva da quella scuola non avrebbe più studiato, ci impegnava a fondo. Ecco le materie che si studiavano allora alla Carlo Cattaneo: Matematica, fisica, disegno tecnico, tecnologia e laboratorio tecnologico, officina, italiano, storia e geografia, francese, scienze, educaz. Fisica e religione e scusate se è poco. Non avevamo latino.

Non pensate che venissero svolte alla leggera, tutt’altro. Per esempio, alla fine del terzo anno eravamo in grado, tutti quanti, di risolvere problemi di geometria solida che richiedevano l’impostazione e la risoluzione di un sistema lineare di tre equazioni con tre incognite, (alle medie se lo sognavano). A disegno tecnico eravamo in grado di disegnare tutti i dettagli di un pistone nelle tre proiezioni ortogonali e poi da queste potevamo ricavare il disegno del pistone in assonometria, sia isometrica che cavaliera. (Scusate se è poco). Eravamo perfino in grado di parlicchiare francese (non io che non ero versato per le lingue). In fisica avevamo fatto meccanica, acustica, ottica e termodinamica con qualche traccia di elettrotecnica (questa fuori programma)

Mentre il programma di italiano storia e geografia era pressochè uguale a quello delle medie (dal confronto coi miei compagni del palazzo che frequentavano le medie). A laboratorio tecnologico abbiamo imparato il funzionamento e l’uso delle principali macchine utensili (seghe a nastro, circolari anche alternative, tornio, trapano a colonna ecc. e tutto in condizioni di lavoro di assoluta sicurezza con tutte le precauzioni possibili e immaginabili per non farci fare male. In Officina facevamo “aggiustaggio” di alta precisione: incastri a coda di rondine o a denti quadrati con le superfici parallele, perfettamente in piano e in squadro. Ci impazzivamo col piano di riscontro col blu di prussia per verificare la planarità dei pezzi e col minimetro si verificava il parallelismo delle facce mentre col calibro ventesimale verificavamo la tolleranza delle misure. A tecnologia abbiamo appreso i processi di estrazione e lavorazione del ferro, della ghisa e dell’acciaio. Studiato il funzionamento degli altiforni, l’uso delle siviere e dei convertitori Martin Siemens e Bessel. Insomma questo vi dà un’idea di quella scuola che iniziavamo dopo la quinta elementare.  Si entrava la mattina alle otto precise e si usciva, quasi tutti i giorni alle 15, 15;30 con un brevissimo intervallo verso le dieci ed una pausa pranzo di cinquanta minuti. Al nostro confronto alle medie si riposavano.  Solo il sabato si usciva a mezzogiorno.

All’epoca, il percorso scolastico era piuttosto rigido. Chi, come me, dopo le elementari andava in una scuola professionale, non aveva l’ammissione alle scuole superiori. Le ragazze avevano un istituto professionale dove si studiava stenografia e dattilografia col metodo delle dieci dita (lo frequentava mia sorella Anna) oltre a merceologia storia geografia e italiano, francese, educazione fisica e religione. Il suo orario era assai più leggero del mio.

Chi usciva dalle medie poteva solo andare al liceo classico o ad un istituto tecnico (mi pare di ricordare che lo scientifico non era ancora stato istituito). Chi usciva da un istituto tecnico superiore, non aveva accesso all’università. Poi, naturalmente finito il liceo si doveva andare necessariamente all’università, ma all’epoca, la stragrande maggioranza dei ragazzi e delle ragazze facevano solo scuole professionali, pochi propendevano per gli istituti tecnici, e poi subito al lavoro. L’università era a numero chiuso e costosissima. Nel palazzo dove abitavo c’era, tra tanti ragazzi, un solo studente universitario (Alberto), di tre anni più grande di me, che era molto amico mio, lui studiava legge, mentre nel portone a fianco c’era solo un altro ragazzo (Giorgio), coetaneo di Alberto, che faceva filosofia ed era amico nostro, mentre in tutta la strada c’era una sola ragazza, coetanea dei due studenti, che studiava lettere alla Sapienza. Così partecipavo a interminabili discussioni filosofiche tra i due studenti, discussioni assai interessanti alle quali però la mia partecipazione era piuttosto scarsa in quanto dipendeva solo da quello che avevo letto con passione nella mia enciclopedia suddetta. Comunque ascoltavo sempre con grande interesse inserendomi nei loro complicati discorsi solo quando avevo la certezza di non dire castronerie.

Terminata la mia scuola professionale i miei pensavano, com’era uso comune all’epoca, di trovarmi un lavoro, ma un mio zio al quale eravamo tutti molto affezionati, si oppose dicendo che dovevo andare in un istituto tecnico e propose l’Enrico Fermi a Monte Mario. Lui poi mandò suo figlio ad un istituto tecnico per geometri (egli aveva frequentato le medie). Fu tale la sua insistenza che i miei cedettero ma scoprirono subito che l’accesso non mi era consentito poiché non provenivo dalle medie. Tuttavia furono informati che una remota possibilità esisteva: Avrei dovuto, in meno di tre mesi, studiare il programma di latino dei tre anni di medie e poi presentarmi a Settembre per un esame integrativo, che se avessi (improbabilmente) superato mi avrebbe equiparato alle medie e sarei entrato.

Si doveva dunque trovare immediatamente un bravo insegnante di latino disposto a fare questo lavoro estivo con me. Saputo il mio problema, quella ragazza che studiava lettere si offrì volontariamente di farmi da insegnante e così cominciò la mia lotta con le declinazioni, il dativo, il genitivo e una massa di grammatica da paura, qualche sommaria lettura di autori latini e studia, studia, studia, alla fine verso la metà settembre la testa mi scoppiava e non mi sentivo affatto pronto per affrontare l’esame integrativo. Capivo da solo che quanto non sapevo era enorme, tuttavia, quando fu il momento mi presentai coraggiosamente. Eravamo solo in due, io ed un altro che aveva fatto la stessa cosa mia. Non so come, superai l’esame, con grande soddisfazione della studentessa che mi aveva preparato. Iniziai così il primo anno al Fermi (elettronica e telecomunicazioni) Contrariamente all’ordine e alla precisione della C. Cattaneo, al Fermi regnava il caos. Per fare officina si doveva andare in un’altra scuola. I ragazzi provenienti dalle medie non avevano la minima esperienza d’officina e dovetti fare da insegnante. I lavori erano grossolani e imprecisi rispetto agli standard ai quali ero abituato, per carenza di attrezzature (non avevamo il minimetro per controllare il parallelismo ed i ragazzi affogavano il piano di riscontro col blu di prussia che il pezzo quasi ci galleggiava sopra e io dovevo pulirlo e stenderne un velo sottilissimo per ottenere la giusta precisione nella planarità. Non c’era un’aula attrezzata per il disegno tecnico e si dovevano disegnare le tavole sui banchi. Io che ero stato abituato ad un alto grado di professionalità nel disegno tecnico (ogni studente della Carlo Cattaneo aveva il suo personale tavolo da disegno che era quasi un tecnigrafo), ebbi l’impressione di essere tornato, in una scuola cosiddetta superiore, all’età della pietra.

Gli orari erano disordinati, un poco di mattina e un po’ di pomeriggio, spesso si doveva andare in altre scuole. Il corpo insegnante appariva demotivato e noiosissimo e una grande quantità di cose mi erano già ben note dall’avviamento mentre lì non ne sapeva niente nessuno e così avevo l’impressione che le cose andassero terribilmente a rilento e comunque di tutto si parlava meno che di elettronica che era la mia passione. Io la studiavo da solo comprandomi le riviste specializzate dell’epoca e così, al terzo anno, quando si cominciò a parlare degli strumenti di misura io ero moooolto più avanti della scuola. In breve persi la pazienza e decisi di studiare elettronica per conto mio per corrispondenza.

Ad un certo punto giunse la notizia che mia madre era incinta. La cosa, ero adolescente, mi scioccò e dissi che non volevo un altro fratello o sorella. Naturalmente poi nacque Daniela ed io mi ci affezionai subito. La piccola era molto carina e cresceva bene. Ma torniamo alla mia scuola.

Abbandonai quella noia mortale e mi iscrissi alla grande Scuola Radio Elettra. Questa non rilasciava un diploma valido ma solo un attestato, dopo un esame per corrispondenza. Per pagarmi quella scuola che era costosissima, per via della notevole quantità di materiali che spediva per le esperienze pratiche; mi trovai lavoro come operaio ascensorista. Mi assunse la Stigler-Otis (allora erano unite) come apprendista e mi associarono ad un “mastro” cominciando dalla manutenzione degli ascensori. Nel frattempo i miei studi personali di elettronica avanzavano alla grande. Avevo preso quella scuola molto sul serio e non andavo a guardare i risultati degli esercizi se prima non li avevo fatti da solo. Dove sbagliavo (era cosa assai rara) tornavo alla lezione teorica precedente e riguardavo attentamente l’argomento dove ero caduto fino a padroneggiarlo con assoluta abilità. A diciassette anni avevo già costruito una quantità di cose: Un tester, un provavalvole, un Oscillatore di alta frequenza, un alimentatore da laboratorio ed una quantità di ricevitori sperimentali del tipo “a reazione”. Alla fine del corso radio costruii un superbo apparecchio AM e FM con giradischi incorporato nella parte superiore. Funzionamento più che perfetto, cosa che dimostrò sia le mie capacità tecniche che le capacità degli ingegneri progettisti della scuola. Continuando a lavorare agli ascensori (lavoro che odiavo cordialmente ma che mi permetteva di sostenere l’altissimo costo della Radio Elettra) iniziai un nuovo corso sui transistor che erano, allora, una novità (seppi poi che i periti elettronici che uscivano dal Fermi ne avevano sentito parlare ma non ne sapevano niente). Questo corso fu molto più rapido in quanto il corso radio che avevo già fatto era un prerequisito indispensabile e quindi tutti i principi delle telecomunicazioni dell’epoca mi erano già famigliari. Al termine del corso mi ritrovai ad avere costruito un elegante piccolo ricevitore a transistor. Ma cominciavano a vedersi in giro i primi televisori. I miei non erano in grado di comprarsene uno ed allora accettai subito la nuova sfida e mi iscrissi al corso di televisione. Prima di compiere i ventuno anni avevo costruito un oscilloscopio (abbastanza economico) sufficiente per il servizio TV ed uno stupendo televisore da 23 pollici (in bianco e nero) con un bel mobile in legno lucido. Ovviamente anche questo funzionava alla perfezione e così i miei poterono guardare la TV (privilegio di pochi, all’epoca). C’era solo il primo canale e trasmetteva, in bianco e nero, solo di pomeriggio (poco) e di sera, mentre di mattina trasmetteva il monoscopio, immagine molto utile ai tecnici per la perfetta messa a punto di un televisore. Con le trasmissioni di Mike Buongiorno e quelle del sabato sera, la TV cominciò a diffondersi rapidamente e assieme a lei la mia fama di esperto tecnico TV. Quegli apparecchi di allora erano delicati  e si guastavano spesso e volentieri. I guasti più comuni riguardavano nell’ordine: l’alimentatore, il circuito di alta tensione, la “rialzata”, ed i trasformatori di riga e di quadro.  Ma io avevo un grosso problema commerciale. Mi vergognavo a chiedere denaro per le riparazioni che facevo e cedevo spesso alle richieste di sconti anche forti; insomma tanto ero in gamba come tecnico quanto ero una nullità come commerciale. Capii quindi che il lavoro in proprio non era per me. Cominciai a guardarmi intorno ma scoprii subito che non avevo credito perché non ero diplomato. Tutti volevano solo gente diplomata in elettronica (che abbiamo già visto come erano mal preparati). Intanto ero andato avanti senza accorgermene e sul mio lavoro di ascensorista mi avevano promosso “mastro”. Contemporaneamente mi arrivò la cartolina di arruolamento al servizio di leva. Intanto mi ero anche innamorato perdutamente di una ragazza del mio palazzo che aveva cinque anni meno di me. Ero timidissimo in amore e faticai un’enormità per riuscire a dichiararmi. Ma lei mi disse di no e la mia successiva corte serrata (non però a livello di stalking) non ottenne il minimo successo. Le nostre famiglie erano amiche e si frequentavano. Si andava al cinema insieme. La madre di lei (che aveva due bellissime sorelle) faceva dei lavoretti di sartoria per mia madre che ricambiava come maglierista. Più di una volta sono stato a casa loro per interventi sull’apparecchio radio e sul televisore. Una volta (era d’estate, le ragazze erano in vacanza ed io ero in ferie) mi chiamarono per installare il secondo canale sul loro TV. Ricordo che ero timidissimo con le donne. La sera prima mi procurai il materiale necessario e la mattina dopo, verso le otto, mi presentai alla porta. Mi aprì la madre e mi disse che le ragazze erano ancora a letto ma sveglie. Data la grande confidenza tra noi (ero cresciuto praticamente assieme alle ragazze e la prima era mia coetanea) mi fece entrare dov’era l’apparecchio (cioè nella camera delle tre ragazze). Queste non diedero il minimo segno di disagio mentre io, alla vista di tanta grazia di Dio in semi intimità avevo un forte batticuore e non riuscivo a connettere. Sono certo che si accorsero tutte della mia situazione perché ogni tanto partiva una frecciatina e ridacchiavano tra loro, il che accresceva il mio stato confusionale. Rischiavo di fare un fiasco con l’installazione, ma poi uscirono tutte dalla stanza e restai solo con l’apparecchio. Potei così recuperare la mia lucidità e scoprii che, con la testa tra le nuvole, stavo commettendo dei gravi errori. Non persi altro tempo, terminai rapidamente il mio lavoro facendomi pagare solo il materiale e scappai dalla loro casa semi-stravolto e senza salutarle.

I primi di luglio mi presentai al distretto militare e mi mandarono a Cagliari per il C.A.R. (Centro Addestramento Reclute).  Il viaggio di andata fu allucinante. La nave partì di sera, a mare calmo, dal porto di Civitavecchia ed il viaggio sarebbe durato per tutta la notte. Noi avremmo dovuto dormire in una specie di camerata con le cuccette che ci erano state assegnate. Verso le dieci di sera qualcuno cominciò ad andare a letto ed anch’io andai. Un’oretta dopo, tutti erano a letto e in quel momento la nave cominciò a rullare e a beccheggiare con forza sempre maggiore. Io non soffro di mal di mare, ma sono di stomaco assai delicato. La gente cominciò a vomitare ed il puzzo di acido gastrico si diffuse rapidamente nel locale. Io mi alzai velocemente e scappai all’aperto sul ponte per non vomitare a mia volta, ma non per il mal di mare. Moltissimi altri fecero altrettanto dopo di me e cominciarono senz’altro a vomitare sul ponte e sulle ringhiere e le balaustre della nave. Era buio pesto e dove si toccava era sporco di vomito. Tutto il ponte era coperto di poltiglia scivolosa e vomitevole ed io facevo sforzi sovrumani per non vomitare a mia volta. Andai a poppa, trovai un posto buio e non ancora sporco e mi sporsi leggermente fuori per respirare aria pulita. Vedevo la spuma bianca delle ondate che si frangevano contro la nave, vedevo la poppa sollevarsi enormemente sul mare e poi sprofondare nella gola dell’onda per poi risalire a notevole altezza sulla sua cresta, sentivo sul viso il vento fresco e forte del mare. Nel cielo un incredibile, mai visto sfolgorio di stelle e vidi, per la prima volta, la via lattea attraversare tutto il cielo trasversalmente. A Roma non l’avevo mai vista né avevo mai visto un tale sfolgorio di stelle. Quello spettacolo e quella sensazione distolsero la mia attenzione dalla vomitevole situazione tutto intorno a me e stetti molto meglio. Restai lì per non so quante ore, in piedi e senza dormire. Come Dio volle spuntò l’alba e contemporaneamente il mare si calmò. Alle prime luci lo spettacolo del ponte dove mi trovavo era rivoltante. Non c’era un centimetro quadrato che non fosse sporco di vomito, tutte le ringhiere comprese. Poi uscirono i marinai armati di potenti idranti e spazzarono in mare tutta quella porcheria. Grazie alla calma piatta che subentrò, tutti si sentirono meglio e sparirono nelle loro cuccette. Provai a farlo anch’io ma dovetti subito rinunciarvi perché il puzzo insisteva ancora nel locale e così me ne riandai fuori. Finalmente, dopo la terribile notte insonne, arrivammo a destinazione.

La vita all’aria aperta e la disciplina militare mi snebbiarono la testa dalla lunga, infelice cotta per quella ragazza e un bel giorno scoprii con piacere che non era più al centro dei miei pensieri. Anzi, non la pensavo proprio più. Fu una liberazione, una cupa presenza di infelicità aveva finalmente lasciato libero il mio cuore. Avevo solo timore della mia reazione quando, andando in licenza, l’avrei rivista. Timore che rivedendola tornasse nel mio cuore la sua cupa e infelice presenza costante e senza speranza. Non ho mai capito perché, dopo molti mesi di corteggiamento serrato non mi avesse mai concesso neppure un bacetto superficiale. Forse un motivo c’era, ma lo sapeva solo lei. Però ora penso di saperlo anch’io, ma adesso è tardi, è l’una e mezza di notte e me ne vado a dormire. Riprenderò domattina spiegando quale potrebbe essere il motivo dei suoi persistenti rifiuti.

Riprendo adesso con la mia spiegazione, l’unica che posso realisticamente ipotizzare.

Dobbiamo tornare indietro, alla mia età di undici anni. Dunque, a quell’età, già da qualche mese soffrivo di una misteriosa febbriciattola, che a me non dava alcun disturbo, ma i miei li vedevo decisamente preoccupati per questo e allora visite mediche, esami, radiografie ai polmoni,  esame del metabolismo basale e quant’altro. Alla fine di tutto, la diagnosi accertata fu che in un mio polmone era presente una traccia iniziale di focolaio tubercolare. Naturalmente, allora io non capivo quanto fosse grave la situazione in quanto non avvertivo alcun disturbo, neppure la tosse.

I medici dissero che si poteva risolvere senza problemi se avessi soggiornato in un centro specializzato per almeno un paio di mesi. Mia madre, preoccupatissima, ne parlò, tra gli altri, anche con la mamma delle tre sorelle e questa, che aveva un parente medico proprio in uno di tali centri, la indirizzò verso quel centro di prevenzione antitubercolare che lei conosceva. Tale preventorio si trovava in collina, a Fara Sabina, non lontano da Roma. C’era però un problema economico non di poco conto. Mio padre, che lavorava in proprio, non aveva l’assistenza medica, che allora si chiamava “cassa mutua” e quindi avrebbe dovuto pagare il mio soggiorno di tasca propria. Lui lavorava in proprio come piazzista di generi alimentari e lavorava per alcuni magazzini all’ingrosso guadagnando una piccola percentuale sugli ordinativi.

Per potermi mandare a quel preventorio di Fara Sabina ha perciò chiesto un prestito al padrone del magazzino per il quale lavorava maggiormente. Questi, persona veramente degna, appena saputa la ragione della richiesta approntò immediatamente la somma necessaria. Così fui mandato a Fara Sabina. Il preventorio, frequentato esclusivamente da maschietti della mia età (più o meno) fece il miracolo. La vita in collina, all’aria aperta sotto i pini, il mangiare molto appetitoso ed abbondante, le cure e le attenzioni quotidiane del personale medico e infermieristico, gli orari precisi dei pasti e del sonno furono assai efficaci. Dopo soli quindici giorni la febbriciattola persistente era scomparsa e alla fine del soggiorno i medici mi dichiararono fuori pericolo e mi rimandarono a casa. Nel frattempo mio padre rimborsava con piccole rate il prestito ricevuto (senza interessi) ed un certo momento disse contento alla mamma che il padrone del magazzino gli aveva condonato la rimanenza. Dove si trova, oggi, una simile persona?

Dunque, sei anni dopo, (17 anni) io mi innamorai di Simonetta. Probabilmente la mamma di lei che sapeva tutta la mia storia, deve aver convinto la figliola a non frequentarmi nel modo più assoluto nel timore di un possibile contagio e questa potrebbe, secondo la mia ipotesi, essere la ragione di una così forte resistenza alla mia corte serrata. Ma questo non me lo ha mai detto nessuno, è solo una mia ipotesi fatta da adulto. Comunque, i successivi controlli radiografici evidenziarono la completa remissione del focolaio iniziale del quale era rimasta solo una piccola traccia cicatriziale. Ero guarito completamente, ma la sua mamma non deve essersi comunque fidata di me.

    Torniamo ora al mio servizio di leva (tra l’altro, alla visita medica militare, saputi i miei precedenti, mi confermarono abile ed arruolato. Ulteriore dimostrazione della mia completa guarigione).

Al CAR la disciplina era ferrea e le punizioni collettive fioccavano per un nonnulla commesso da qualcuno che poi non aveva il coraggio di farsi avanti (e noi non facevamo la spia). I caporali istruttori erano abbastanza umani, ma c’erano un paio di sergenti veramente terribili. Nelle punizioni collettive (era un Luglio infuocato) ci facevano correre per il cortile assolato, senza sosta, mentre loro se ne stavano seduti all’ombra. Oppure ci tenevano sull’attenti, immobili sotto il sole.

    Comunque il tempo passò e si era ormai quasi alla fine dell’addestramento. La maggiore preoccupazione ce la davano le parole dei sergenti in questione che dicevano che quando saremmo andati al reggimento, gli “anziani” ed i “nonni” ci avrebbero fatto di tutto e di più. La cosa ci preoccupava non poco.

Il giorno del giuramento, venni selezionato per una compagnia di formazione che avrebbe dovuto fare la coreografia militare davanti alle autorità ed al pubblico, mentre tutte le reclute, in divisa festiva ma con anfibi ed elmetto, allineate e coperte attendevano già da tempo, ferme sotto l’impietoso sole sardo di fine agosto. La caserma venne finalmente aperta al pubblico che si sistemò nelle apposite tribune. Molti ragazzi avevano lì i loro genitori venuti ad assistere al giuramento dei loro figli. Io invece ero solo, ma non me ne dolsi. Dopo tanto tempo sotto il sole, qualcuno cominciò a svenire e venne prontamente portato in infermeria. Ogni tanto qualcuno sveniva per la forte calura. Il mio elmetto scottava tanto che pensai che se ci avessi messo sopra un uovo, si sarebbe cotto alla perfezione in pochi minuti. Per fortuna le finiture interne tenevano il metallo ardente sollevato dalla pelle del capo, altrimenti ci avrebbe cotto il cervello.

Un pomeriggio, l’ultimo che facevo di guardia alla porta centrale, ero appunto di sentinella in garitta ed un piantone gironzolava intorno qua e là. Come forse saprete, alle sentinelle è rigorosamente vietato parlare con chicchessia, fosse pure il colonnello comandante. Ad un certo punto uscì dalla porta uno dei miei caporali istruttori. Fece qualche passo e poi, improvvisamente tornò indietro e si diresse deciso verso di me. La cosa mi preoccupò subito per via della consegna del silenzio. Se gli avessi risposto avrebbe potuto punirmi, ma nello stesso tempo, una risposta avrebbe potuto essere necessaria. Attesi con apprensione che si avvicinasse e arrivatomi vicino mi disse sottovoce e rapidamente: “Aspromonti, tu sei destinato a Roma”. Poi fece dietro front e si allontanò senza aspettare alcuna mia reazione.

 Alla notizia naturalmente esultai dentro di me restando tuttavia immobile col fucile in braccio e l’elmetto in testa. Ero un privilegiato, sia perché tornavo a Roma, sia perché avevo avuto la notizia con un paio di giorni d’anticipo rispetto agli altri. Poi uscì la tabella ufficiale delle destinazioni di ciascuno e vidi che il mio caporale aveva detto il vero. Ero destinato, non ad un reggimento (altro privilegio) ma ad una scuola trasmissioni della Cecchignola a Roma; là non c’erano né “anziani” né tantomeno “nonni” e dunque le mie preoccupazioni in tal senso svanirono come nebbia al sole.

    Il viaggio di ritorno in nave fu tranquillo. Il mare si mantenne sempre calmo e nessuno si sentì male. Venimmo accolti da un capitano che sembrava un padre e la disciplina della scuola era assai più blanda di quella del CAR. Mi trovai subito a mio agio ed andai in visibilio alla vista delle aule e dei laboratori di elettronica. I docenti cominciarono le lezioni che io assorbivo come una spugna. Mi meravigliava la robustezza e la sicurezza di funzionamento degli apparati rice-trasmittenti militari in confronto agli apparecchi civili ai quali ero abituato. Quei sei mesi di corso passarono in un lampo. Tutti i test periodici ai quali venivamo sottoposti li superavo, senza falsa modestia, brillantemente e con largo anticipo rispetto ai miei commilitoni. Sospetto fortemente che molti avessero dichiarato il falso alla visita di leva dicendo che erano radiotecnici, ma era fin troppo evidente che molti non ne masticavano quasi niente.

    L’esame finale consisteva nell’assemblaggio, in un’aula appositamente attrezzata a laboratorio, di un ricevitore supereterodina di tipo commerciale. A ciascuno venne consegnato un telaio ed il materiale necessario e cominciammo. Avevamo un’intera giornata per portare a termine il nostro compito, ma io, dopo sole due ore, avevo già terminato il mio ricevitore che funzionava normalmente, mentre vedevo che tutti gli altri andavano molto a rilento. Consegnato il mio lavoro ai docenti, però mi annoiavo ma non potevo uscire, allora chiesi ai docenti altro materiale per costruire un altro apparecchio radio. Terminai il mio secondo apparecchio giusto in tempo per l’ora di pranzo (gli altri stavano ancora lontani dal terminare il loro lavoro). Dopo il pranzo tutti tornarono nel laboratorio d’esame ma i docenti ritennero che non fosse il caso che andassi anch’io e così mi mandarono in un altro laboratorio dove il sergente responsabile mi mostrò un complicato e costoso provavalvole, guasto da anni e che nessuno era stato in grado di riparare. Impiegai meno di due ore per rimettere in funzione lo strumento ed il sergente ne restò assai meravigliato e andò a parlare col capitano. Il capitano venne in laboratorio, constatò il perfetto funzionamento dello strumento e poi andò a parlare con i docenti in sala d'esame. Quando tornò mi disse che sarei restato alla scuola dopo il corso per fare il docente a mia volta. Io ne fui felice perché così il reggimento non l’avrei visto proprio e perché sarei restato certamente a Roma.

Il corso volgeva al termine. Io andavo tutte le sere a casa e a volte incontravo anche Simona ma stavolta niente corte e solo un blando ciao. La cotta m’era ormai passata. Avevo altro cui pensare. Commisi però il grave errore di dire ai miei che il capitano aveva deciso che sarei rimasto a Roma come docente. I miei finsero di commentare positivamente la notizia, ma in realtà erano preoccupati che ricominciasse la mia infelice storia con Simona. Commisi l’altro errore di non dire loro anche che ormai ne ero fuori. Naturalmente non sapevo di commettere degli errori. Questo l’ho scoperto anni dopo riflettendo su alcune cose che in seguito venni a sapere ma che allora non conoscevo e neppure sospettavo minimamente.

    La nostra preoccupazione principale, come militari, volgeva sulla destinazione dopo corso. Naturalmente questa preoccupazione non era condivisa da me per ciò che già sapevo ma che non avevo detto a nessuno. Venne esposta la tabella delle destinazioni che io non degnai di uno sguardo mentre tutti vi si affollavano intorno commentando le varie destinazioni, ma senza più il pensiero degli “anziani” del reggimento in quanto, ormai, lo eravamo anche noi, dopo otto mesi di naja.

La sera fu tutto un brulicare di attività. Tutti si davano un gran da fare a preparare gli zaini per la partenza, mentre il grande cortile si andava empiendo dei camion che li avrebbero condotti alla stazione Termini per i treni alle varie destinazioni. Io osservavo tranquillo tutto questo gran da fare mentre i mezzi militari aspettavano di caricare tutti.

Finalmente tutti furono pronti per scendere in cortile e salire sui camion. Un mio commilitone amico venne da me e non vedendomi pronto mi disse: “Aspromonti, ma tu non ti sei preparato! Come fai adesso? Sei destinato a Padova!” Io rimasi allibito e mentre il grande corridoio si andava svuotando mi precipitai alla tabella che avevo sempre ignorato e lessi: Aspromonti Francesco. XLII Battaglione Trasmissioni. Padova. Restai di sale e sul momento pensai che i caporali ne sapevano più dei capitani, infatti a Cagliari un caporale mi rivelò che sarei andato a Roma ed era vero. Qui un capitano mi disse che sarei restato a Roma e invece non era vero. Mi scapicollai in camerata, ormai deserta e cominciai a buttare disordinatamente roba nello zaino. Fui pronto in brevissimo tempo, anche perché facilitato nei movimenti per il fatto di essere solo in camerata. Uscii sul corridoio ormai deserto, trascinandomi in fretta lo zaino, quando vidi il mio capitano venirmi incontro come un cane bastonato, avevo ardentemente sperato di incontrarlo per avere una spiegazione. Io scattai sull’attenti, mi disse riposo e mi chiese scusa per l’accaduto spiegandomi che all’ultimo momento un raccomandato dal colonnello comandante in persona, mi aveva soffiato il posto a Roma. Naturalmente accettai le sue scuse, dispiaciuto anche per lui. Lo salutai e scesi in cortile. Ero l’ultimo a salire sui camion che erano stati fermati dal capitano per darmi il tempo. Il mattino successivo, una gelida e livida alba ci accolse a Padova. Compresi molto tempo dopo che il raccomandato in questione ero proprio io. Raccomandato si, ma al contrario; raccomandato per andare via e non per restare. Lo zio Nario, venni a sapere molto tempo dopo, era amico del colonnello comandante ed i miei si erano rivolti a lui proprio perché volevano continuare a tenermi lontano da quella ragazza e tutto andò, a mia completa insaputa, secondo i loro ormai inutili e dannosi piani. Dannosi perché il mio trasferimento non fu senza conseguenze. Una gelida notte ero di guardia alla porta centrale ed ero completamente intirizzito, quando mi venne l’infelice idea di trovare riparo dal freddo nella vicinissima guardiola calda ed illumimata, ma deserta in quanto l’ufficiale di picchetto se n’era andato a dormire. Mi crogiolai al calore della stufa in funzione e tenevo d’occhio l’ingresso, ero sempre di guardia. Dopo una mezz’oretta, riuscii fuori al freddo (era vietato, alla sentinella, l’accesso alla guardiola). In breve ricominciai a rabbrividire e ritornai in guardiola. Poi riuscii e poi vi rientrai e questo andirivieni dal gelo al calore e viceversa mi fece male; ecco perché era vietato alla sentinella entrare in guardiola. Mi beccai una formidabile sinusite con febbre molto alta. Il medico militare ordinò il mio immediato ricovero all’ospedale militare di Padova, che dovetti raggiungere con i mezzi pubblici, barcollando per la debolezza. Mi tennero dentro per un intero mese, curandomi molto bene. Poi l’ospedale mi dette un mese di licenza di convalescenza e tornai a casa a Roma. In quel mese avevo un impegno preso con un mio commilitone benestante. Questi abitava, da civile, in una villa con un cancello che si apriva sul giardino interno. Egli conosceva la mia particolare abilità di progettista e mi chiese di progettargli un radiocomando per aprire il cancello stando dentro la macchina. All’epoca, era il 1963, i cancelli automatici non esistevano ancora. Io dissi che avrei progettato e costruito sia il radiocomando che il ricevitore, ma gli dissi che riguardo alla meccanica di azionamento del cancello, doveva provvedere da sé in quanto non mi era possibile quest’altro impegno. Mi disse che per questo non c’era problema, si sarebbe rivolto ad un elettrotecnico locale. Il mio dispositivo fu pronto molto prima della fine della licenza e funzionava da un centinaio e oltre di metri di distanza dal ricevitore. Quando lo rividi lui mi pagò tutte le spese sostenute e mi dette anche di più per il lavoro. Per quanto ne so fu quello il primo cancello automatico della storia per privati cittadini.

    Tornato al mio battaglione, molto presto arrivò dal capitano della mia compagnia una richiesta volontaria. Gli occorrevano cinque militari per aiutare un tecnico della Marconi che doveva riparare una grossa quantità di ponti radio campali. Poiché gli apparati erano molto pesanti le persone servivano per portare gli apparati guasti dal magazzino al tavolo di lavoro e viceversa. Un lavoro di pura e bassa manovalanza. Comunque mi proposi poiché mi avrebbe interessato vedere come funzionavano i ponti radio che era cosa che non conoscevo ancora. Altri quattro ragazzi si proposero a loro volta e andammo così nel posto, fuori caserma a circa quattro chilometri di distanza, dove erano stipati un’incredibile quantità di apparati guasti. Il sergente maggiore responsabile della cosa ci accolse, ci presentò al tecnico, che era un anziano signore sulla cinquantina, magro e piccolo, e ci mostrò cosa dovevamo fare. Così portammo il primo pesante apparato sul tavolo da lavoro ed il tecnico cominciò. Era una persona pratica e sbrigativa. Mentre gli altri bighellonavano aspettando il da farsi, io osservavo attentamente il lavoro del tecnico. Scoprii così che in realtà disponevo di tutto il know how necessario per farlo anche io e mi proposi al tecnico per aiutarlo nel suo lavoro dicendomi in grado di poterlo svolgere con successo. Egli mi mise alla prova con un paio di apparati e vide così che poteva fidarsi di me. Certo in due si sarebbe dimezzato il tempo delle riparazioni e lui, come me del resto, fu entusiasta della cosa. Io poi così mi sentivo elevato nel passare da un lavoro di pura manovalanza ad un lavoro costruttivo e di concetto. Gli altri quattro si disinteressavano totalmente a quello che facevamo noi limitandosi al puro e semplice trasporto degli apparati da un posto all’altro. All’improvviso arrivò la notizia che la mia classe del 1941 sarebbe stata la prima classe che invece di fare 18 mesi di naja, ne avrebbe fatti solo quindici. In caserma scoppiò la nostra esultanza perché ci trovammo improvvisamente ad essere dei “nonni” rispettati da tutta la truppa, ma soprattutto perché si tornava a casa tre mesi prima del previsto. Dopo qualche giorno, il tecnico della Marconi si convinse che ero perfettamente in grado di sostituirlo e decise di tornare a Torino lasciando a me tutto il lavoro. Parlò quindi col responsabile del laboratorio, gli spiegò la nuova situazione e lo convinse a fare in modo che potessi dedicarmi a tempo pieno al suo lavoro. Questi ne parlò col mio capitano il quale accettò di affrancarmi da tutti i servizi di caserma per proseguire il lavoro del tecnico che se ne andava. Da quel momento divenni un vero signore. Una camionetta militare con autista era a mia disposizione per portarmi tutti i giorni lavorativi dalla caserma al laboratorio e viceversa, quattro volte al giorno. Ma io ripagavo quelle attenzioni riparando una media di quattro apparati al giorno. Mi sentivo in paradiso nel mio elemento. Avevo sicuramente più lavoro del tempo che mi restava di naja. La quantità di apparati da riparare era impressionante. Ma anche la quantità di quelli riparati cominciava ad essere sensibile.

Tutti i sabati andavo in permesso di trentasei ore ed in quelle ore andavo a trovare i miei parenti ad Udine, ospite di mia zia Attilia che abitava nella casa friulana di mia madre. Durante uno dei miei ultimi viaggi da Padova ad Udine mi capitò di trovarmi immischiato con una truppa di militari in divisa da fatica (io ero naturalmente in divisa di libera uscita). Questi avevano invaso tutto il treno con i loro zaini e le loro persone. Di entrare nello scompartimento del vagone non c’era alcuna possibilità per la grande ressa e così rimasi vicino allo sportello dal quale ero riuscito a salire stipandomi assieme a loro. Durante quello scomodissimo viaggio mi accorsi di due ragazze in piedi, compresse dai militari vicino al finestrino e pian piano cominciai ad avvicinarmi a loro. Erano bionde, una più grande ed una più piccola. La più grande era più bassa di me ed aveva un fisico snello, la più piccola era un poco meno snella.

 Se ne stavano lì, immobili in mezzo alla truppa dalla quale io spiccavo solo per la mia perfetta divisa da libera uscita che contrastava molto con la divisa da fatica di tutti gli altri. La più piccola si volse un attimo e mi notò. Non mi piaceva un gran chè, ma quando si ha fame si mangia di tutto. Vidi che sussurrò qualcosa all’orecchio dell’altra che, seppi dopo, era sua sorella. Poco dopo vidi che anche l’altra mi osservò senza parere con la coda dell’occhio, ma io l’avevo visto. Ero consapevole della mia apparente superiorità rispetto agli altri, per via della mia divisa e sapevo che ero attentamente, anche se nascostamente, osservato e valutato da entrambe le ragazze che spesso commentavano sottovoce tra loro, ma sempre voltandomi le spalle. Giunti alla stazione di Mestre, tutti i militari scesero dal treno lasciandolo completamente deserto. Rimasi allora solo con le due ragazze sulla piattaforma del vagone. Pensai allora di agganciarle. Mi avvicinai e le invitai ad entrare nello scompartimento vicino ormai vuoto per sedersi. Le due si scambiarono un breve cenno d’intesa e la piccola disse che lei preferiva restare in piedi lì, mentre la grande accettò di entrare con me nello scompartimento. Ci sedemmo uno di fronte all’altra vicino ai rispettivi finestrini. Scoprii così che la mia atavica timidezza era quasi scomparsa. Cominciammo a parlare. Io le dissi cosa facevo a Padova e lei mi disse che era stata in Sicilia con sua sorella, ospite di un suo zio. Scoprii poi, settimane dopo, che era una bugia. Poi le chiesi il permesso di sedermi accanto a lei e me lo concesse senza difficoltà. Eravamo completamente soli nello scompartimento. All’improvviso le presi la mano nella mia e lei non ritirò la sua mano. Allora presi il coraggio a due mani e la baciai di sfuggita sulle labbra. Lei rispose al mio bacio e allora la baciai di nuovo con maggiore convinzione e consapevolezza. Lei rispose appassionatamente al mio bacio. Cominciò così la nostra storia d’amore. Purtroppo, ad un certo punto arrivò una vecchia che si piazzò sulla porta del nostro scompartimento e più non si mosse da lì restando in piedi come di sentinella e guardandoci di traverso. Con quella presenza ingombrante, non riuscii più a baciare Maria (così si chiamava la ragazza che aveva diciotto anni) e nemmeno lei ci provò più, ma ci davamo dei cenni d’intesa aspettando pazientemente che la vecchia se n’andasse a fàn… a quel paese. Ma la vecchia non cedette e restò lì come un cerbero fino alla fine del viaggio. Arrivati ad Udine, non so cosa mi prese, forse timore di impegnarmi, non so, fatto sta che non chiesi alla ragazza come poterla rivedere e vidi le due sorelle allontanarsi per prendere una corriera diversa dalla mia. Mi rendevo conto che la stavo perdendo ma non feci nulla per evitarlo.

    Mancavano ormai un paio di settimane al congedo. Di lavoro ne avevo quanto volevo. Ci sarebbero voluti almeno un paio di mesi per completare tutti quegli apparati ed io ripensavo spesso a Maria  ed alla mia dabbenaggine per non averle chiesto il suo indirizzo. Me ne sono pentito un centinaio di volte. Comunque il giorno del congedo arrivò. Era il mese di ottobre ed io, uscito ancora in divisa dalla caserma, con il foglio di congedo arrotolato ed infilato in una spallina della camicia. Mi sentii d’un tratto come perso. Nessuno più pensava o si occupava di me, potevo fare ciò che volevo e non dovevo rientrare in caserma o presentarmi ai Carabinieri per la firma dei permessi. Passeggiando lentamente, diretto alla stazione di Padova non sapevo cosa fare, da un lato avrei dovuto tornare a Roma e riprendere il mio lavoro di ascensorista ormai in qualità di mastro, ma da un altro lato avrei voluto ritrovare Maria senza sapere come fare. Ma certamente, se fossi tornato a Roma e ripreso il mio lavoro, l’avrei persa in modo definitivo ed irrevocabile. Decisi allora di andare ad Udine invece che tornare a Roma. Ad Udine avevo trovato l’amore che Roma non mi aveva concesso. Come dice un vecchio proverbio: “tira più un pelo di fi…donna che una paranza di buoi”. Tornai così ospite di zia Attilia e suo fratello, zio Antonio venne a sapere da me la storia del mio incontro con Maria. Lui mi disse che con le pochissime informazioni che avevo sarebbe stato possibile rintracciarla. A me la cosa pareva del tutto impossibile ma lui, esperto della vita dei paesi, si mostrò molto possibilista. Così la mattina dopo, di buon’ora, decise di accompagnarmi nella ricerca di Maria. Lui aveva un motorino e lo zio Giovanni mi prestò il suo. Così partimmo alla volta di Cividale del Friuli. Dovevamo trovare il paese di S. Leonardo, nella valle del fiume Natisone, paese che lei mi aveva nominato di sfuggita ma che io ricordavo. Scoprii con sorpresa che, sia a Cividale che dopo non si parlava più il friulano e dopo Cividale parlavano sloveno (ma parlavano anche  italiano). Uscimmo dalla provincia di Udine per entrare in quella di Trieste. Mio zio Antonio cominciò a chiedere informazioni, prima per trovare il paese e poi se conoscevano una ragazza fatta così e così con uno zio in Sicilia. Circa il paese, ottenemmo le informazioni, ma circa la ragazza, nessuno ne sapeva niente. Ad ogni fermata era un bicchiere di vino bianco, cosicchè alla terza fermata cominciavo ad essere un po’ euforico e più che sicuro che l’avrei ritrovata (non so dire in base a quale logica, forse quella del vino). Tuttavia, giunti a S. Leonardo, mio zio ebbe l’idea di parlare col parroco. Questi ci disse che tra i suoi parrocchiani non c’era una ragazza a nome Maria con una sorella a nome Elsa e con uno zio siciliano. Però, ad un certo punto ci disse che sulla cima della montagna di fronte al paese, c’era un piccolo villaggio di quattro case ed in una di queste abitava una famiglia con due ragazze ed un ragazzino e le due ragazze corrispondevano alla descrizione fisica che io ne feci. Disse, ma senza grande convinzione, di provare lì. Con i nostri motorini, ci arrampicammo per la stradina di montagna che portava al villaggio. Giunti in cima vedemmo una piccola chiesetta chiusa ed alcune case. Bussammo alla prima che ci capitò e lì ci indirizzarono ad un’altra casa vicino. Bussammo lì e ci aprì una donnetta minuscola e anziana. Parlando con lei, essa comprese subito chi era che cercava sua figlia perché ci disse che la ragazza era stata colpita da un ragazzo di Roma che faceva il militare a Padova e lei parlava spesso di questo ragazzo che non si era più fatto vivo. L’avevo ritrovata, ma non era in casa. La madre ci disse che lavorava in un ristorante di Cividale come cameriera, del quale mi diede l’indirizzo. Così salutammo e tornammo indietro a Cividale. Chiedendo informazioni sull’indirizzo, trovammo subito il ristorante che si trovava su una piazza di una certa importanza. Entrai e lei mi venne incontro sorpresa ed incredula. Io le sorrisi e lei mi volò spontaneamente tra le braccia. Poi, dato che era quasi ora di pranzo, volle assolutamente che mi fermassi lì a mangiare qualcosa. Io mi fermai, ma poi non volle assolutamente che io pagassi quanto avevo consumato. Nel frattempo, mio zio si era dileguato ed era tornato solo a casa sua. Poi mi chiese come mai avevo aspettato tanto a farle visita ed io le confessai che non avevo osato chiederle l’indirizzo. Allora lei mi disse di non avermelo dato spontaneamente perché aveva visto che la targhetta sulla sua valigia non c’era più e aveva pensato che l’avessi presa io, ma non era così. Certamente l’aveva presa uno dei militari che affollavano il treno. Lei mi chiese allora come avevo fatto per ritrovarla e le raccontai tutta questa storia. Mi trattenni con lei per altre due settimane e poi dovetti tornare a Roma perché non avevo più denaro.

A questo punto non avevo più la minima intenzione di rimettermi a fare l’ascensorista. Io ero un tecnico nato e quella doveva essere la mia professione. Non l’operaio in tuta sempre sporca di grasso nero e con le mani perennemente sporche d’olio di macchina che non venivano mai veramente pulite. Mi licenziai e l’ing. Fiorini fece di tutto per trattenermi, mi offrì un aumento di stipendio, mi promise avanzamenti di carriera ma tutto fu inutile. Ringraziai e me ne andai dall'azienda che mi aveva permesso di studiare l’elettronica a mio piacimento. Restava però il problema del denaro, come guadagnare qualcosa? Tutta la mia vecchia clientela mi aveva abbandonato (in realtà ero io che avevo dovuto abbandonarli) e poi era una clientela di sfruttatori che non mi facevano guadagnare gran chè, anche e soprattutto per colpa della mia inettitudine commerciale. A me capitavano solo i guasti più complessi che nessuno voleva riparare perché non conveniente io non sapevo rifiutarmi. Così lavoravo duramente per risolvere i casi complicati, praticamente quasi a gratis. Questo non era possibile. Stavo quasi pensando di tornare a Canossa pentito (cioè alla Stigler Otis), quando ebbi una proposta da parte di un mio amico meccanico d’auto che aveva un’officina vicino casa mia. Questi mi chiese se volevo lavorare con lui. Io avrei riparato i televisori dei suoi clienti e lui si sarebbe occupato della parte commerciale che io non conoscevo assolutamente. Non trovando niente di meglio, accettai la sua proposta e così, ogni mattina mi recavo alla sua officina. Nel retrobottega avevo organizzato un piccolo laboratorio di riparazioni e quando i suoi abituali clienti vennero a sapere che lì c’era anche un laboratorio radio e TV, cominciarono a piovere i lavori per me. Io osservavo sorpreso la sua abilità nel trattare, con i clienti, i prezzi degli interventi. D’altra parte il meccanico aveva famiglia e non avrebbe potuto portarla avanti se si fosse comportato, con i clienti, come facevo io. Era comunque una persona onestissima in quanto (cosa che non sarebbe stata neppure tanto giusta) divideva i guadagni delle riparazioni TV a metà per ciascuno, ma lui aveva le spese di gestione dell’officina alle quali io non contribuivo affatto. Ma d’altra parte neppure lo aiutavo nel suo lavoro di meccanico né lui me lo ha mai chiesto pur avendone talvolta necessità. Dopo sei mesi compresi che neppure quello era il lavoro per me. Io aspiravo ad entrare in un’industria elettronica ma non mi riusciva. Intervenne allora di nuovo l’impagabile zio Nario. Questi aveva un amico di marina che conosceva un maresciallo dell’aeronautica militare il quale lavorava al Quality Control della società Litton Industries Italia. La società aveva da poco aperto i battenti e operava a via Gregorio VII. Era però in procinto di abbandonare la sua sede perché era diventata troppo piccola. Ingrandendosi, aveva bisogno di personale tecnico ben qualificato e questo maresciallo volle conoscermi prima di presentarmi all’azienda. Egli mi chiese i miei trascorsi tecnici ed io gli raccontai quelli del servizio militare. Ne restò favorevolmente impressionato e mi diede un appuntamento per un colloquio tecnico in azienda. Nel frattempo l’azienda si era trasferita a Pomezia dove aveva preso un grande stabilimento nuovo di zecca in stile molto moderno. Mio padre mi ci portò con la sua moto e assistette al colloquio. Entrando nello stabilimento che costruiva, per l’aeronautica militare i navigatori inerziali per il caccia F104 StarFighter, restai impressionato dal grande numero di ragazze in camice bianco che lavoravano davanti a lunghi banchi con forti luci, grosse lenti e tanti piccoli attrezzi. Poi, sul fondo dell’immenso salone della fabbrica, rimasi colpito da una moltitudine di grandi apparati allineati alle pareti, pieni di misteriose luci ammiccanti e colorate e davanti ad ogni apparato, ben equipaggiato di ogni ben di Dio di strumenti elettronici, lavorava in silenzio un tecnico in camice bianco. Compresi subito che non ci capivo niente e pensai che quel lavoro fosse troppo difficile per me. Mi presentai comunque al colloquio tecnico certo di fare un grosso fiasco e dispiaciuto per il maresciallo che mi aveva presentato certo dicendo mirabilie di me.

L’ingegnere che doveva intervistarmi ci fece sedere, me davanti alla sua grande scrivania e mio padre di lato. Questi era una persona sui quarantacinque anni con il volto un po’ severo. Mi chiese delle mie esperienze e poi mi dispiegò davanti uno schema elettrico che occupò tutto il piano del tavolo e oltre. Mi chiese di leggere lo schema e spiegarlo. Alla prima occhiata lo riconobbi immediatamente. Si trattava di un ricevitore radio a valvole, ma non era del tutto usuale in quanto la parte terminale, anziché avere un altoparlante, aveva un motorino con una resistenza, cosa normalmente inusuale in un ricevitore radio. Comunque cominciai a leggere  e spiegare nel dettaglio quello schema e la cosa portò via molto tempo. Vidi che mio padre, annoiato, si appisolava. Parlai a lungo spiegando tutto lo schema per filo e per segno e mi bloccai alla fine quando arrivai a quel motore e quella resistenza. L’ingegnere non ne fu sorpreso, rimase invece sorpreso dalla profondità della mia analisi dello schema per la parte ricevitore radio. Mi spiegò brevemente la funzione del motore e della resistenza ed allora compresi che si trattava di un Fax che invece di servirsi di una linea telefonica, come tutti i fax, riceveva questi via radio. Fu contento di me, mi fece i suoi complimenti per la mia analisi del circuito e mi disse che ero assunto e sarei stato assegnato al miglior reparto dell’azienda. Potevo iniziare appena fatta la visita medica e l’iscrizione all’ufficio di collocamento quindi ci congedò e tornammo contenti a casa.

    Due giorni dopo arrivò la lettera di assunzione dall’ufficio del personale e nella lettera erano indicati gli indirizzi per la visita medica e per l’iscrizione all’ufficio collocamento. Sbrigate queste formalità cominciai a lavorare e per prima cosa dovetti fare un corso di due settimane di saldatura professionale. La mia istruttrice era una ragazza molto graziosa ma assai esigente. Le mie saldature non le stavano mai bene. Finalmente, dopo una settimana, cominciò ad essere soddisfatta. Mi assegnò allora un effettivo lavoro di saldatura. Dovevo saldare professionalmente una cinquantina di fili ad un connettore. Lavoro per me noiosissimo. Avevo appena cominciato a saldare i primi fili quando si presentò da me un perito industriale del Fermi che con fare autoritario mi disse di smettere quel palloso lavoro e seguirlo. Avrei voluto avvertire la mia istruttrice ma lui non lo consentì. Senza mezzi termini mi fece interrompere il lavoro e mi accompagnò al reparto dove ero stato assegnato. Evidentemente la mia fama diffusa dall’ingegnere intervistatore mi aveva preceduto in quanto il tecnico che mi accompagnava con autorità mi disse che ero stato assegnato al reparto Calibrazione, la crema della crema della Litton. Passammo così davanti a tutte quelle misteriose grandi apparecchiature piene di strumenti e lucine spia e lui mi spiegò la funzione di ciascun “banch test console” come le chiamò. Lui si chiamava Sergio e dopo saremmo diventati amici. Mi disse compiaciuto che si riteneva il miglior tecnico della Litton ed era curioso di conoscermi per quello che aveva sentito dire di me e del mio colloquio tecnico. Poi mi introdusse nel reparto Calibrazione e mi presentò al capo e agli altri due colleghi che lì lavoravano. Il capo (meno di trent’anni) mi fece i suoi complimenti per il reparto dove era stato messo e mi affiancò a Sergio perché mi spiegasse per bene quale doveva essere il mio lavoro. Poi iniziai a lavorare sul serio.

In breve tempo le misteriose apparecchiature non lo furono più. Imparai a conoscerle tutte alla perfezione. Tutto era transistorizzato ed io che conoscevo i transistor non ebbi difficoltà. Tutti i miei colleghi di reparto, tranne uno, provenivano dal Fermi ed erano periti industriali regolarmente diplomati. In azienda c’era un forte classismo. Gli ingegneri erano inquadrati come dirigenti. Non avevano obblighi di orario e guadagnavano trecentomila lire al mese che per quei tempi era un’enormità. I periti industriali erano inquadrati come impiegati e prendevano dalle ottantamila alle centomila lire al mese, che non era affatto male. i tecnici non diplomati (assai pochi) erano inquadrati come operai qualificati e prendevano dalle sessanta mila alle settantamila lire al mese. Tutti dovevamo rispettare gli orari di lavoro con disciplina ferrea, un solo minuto di ritardo nella timbratura del cartellino poteva costare un richiamo verbale dal capo del personale. Le circa duecento ragazze erano inquadrate come manovali e prendevano dalle quarantamila alle cinquantamila lire al mese. (era il 1963). Io, non essendo diplomato, prendevo all’inizio sessantamila lire al mese ed ero inquadrato come operaio qualificato. Mi sentii molto declassato da questo inquadramento, ma tant’era. I miei colleghi periti mi consentivano di svolgere il loro lavoro, riconoscendo la mia notevole professionalità, ma non potevo firmare gli stickers di certificazione perché non ero un perito. Così, all’inizio io (e anche loro, ovviamente) lavoravo e uno di loro firmava lo sticker come se avesse lavorato lui. Ma in breve, la mia professionalità emerse di prepotenza surclassando i periti industriali e dando filo da torcere anche agli ingegneri. Ad un certo punto, Sergio, quello che si riteneva il miglior tecnico della Litton, ammise pubblicamente che io ero ancora migliore di lui (il che non mi meravigliò poiché sapevo bene, per esperienza diretta, come si studiava al Fermi una volta). Scrissi alla mia ragazza che avevo trovato lavoro come tecnico in un'industria elettronica e che ci saremmo potuti vedere in estate, con le mie ferie. Cosa che poi avvenne.

    In azienda lavoravano anche un certo numero di ingegneri americani ed un ingegnere ungherese. Quello che poi ci fece un corso sul sistema di navigazione inerziale usato sul caccia F104. Queste persone (tutte tra i quaranta ed i cinquanta) erano i progettisti delle apparecchiature che tanto mi avevano spaventato la prima volta e che adesso mi erano così famigliari. Essi guadagnavano un milione di lire al mese e in pratica, a parte qualche rara consulenza, non facevano niente. Osservai che ogni volta che c’era da fare qualcosa che esulava dalla normale routine lavorativa, gli ingegneri, anche americani, chiedevano la mia collaborazione e questo, naturalmente, mi lusingava molto. Ad un certo punto, il capo reparto si dimise perché aveva trovato un altro lavoro più redditizio e venne proposto a me di fare il capo reparto della calibrazione. Ma io, conoscendo il classismo dell’azienda, mi feci venire sciocchi scrupoli verso i miei colleghi periti industriali e non accettai. Ormai nessuno più trovava da ridire se io firmavo i miei stickers.

    Poi, inaspettatamente, avvenne la rottura con la mia ragazza.

“Era d’estate e lei era con me, era d’estate tanto tempo fa” (da una famosa canzone). Lei mi disse che doveva andare ad Amburgo per lavorare come cameriera in un bar del porto. Io sussultai e le imposi di non andarci assolutamente. Già la vedevo vestita da coniglietta in minigonna in mezzo ad una baraonda di marinai assatanati e ubriachi che la palpeggiavano in massa al suo passaggio con i beveraggi. Ma il padre di lei era d’accordo a mandarla perché aveva bisogno di denaro. Io insorsi e dissi al padre e alla madre, lei presente, che se fosse andata là avrei rotto la mia promessa di matrimonio. Non vollero sentire ragioni, ma neppure io ne volli sentire. Lei andò ed io ruppi la promessa e non le scrissi mai, d’altra parte non avrei neppure saputo dove scrivere. Ma neppure lei mi scrisse mai e lei sapeva bene, invece, dove scrivere.

    Trascorsero sei mesi da quell’evento e nel frattempo, con la massa di ragazze che c’era alla Litton, avevo solo l’imbarazzo della scelta.

Avevo ormai ventisei anni ed era ora che mettessi su famiglia con una ragazza seria. La mia scelta cadde su una graziosa diciassettenne, molto ben messa come carrozzeria, che era certamente molto seria in quanto di lei non si sentivano le chiacchiere che si sentivano invece su molte altre. Ho scoperto dopo che avevo due concorrenti al posto di marito per quella ragazza. Uno era un tecnico di terz’ordine che svolgeva un lavoro assolutamente monotono che avrebbe saputo fare anche un bambino e che, tra l’altro aveva, poveretto, anche saltuarie crisi di epilessia. L’altro era un impiegato amministrativo che quando camminava, Sergio diceva, facendomi ridere, che aveva appena parcheggiato il cavallo di fuori per via delle sue gambe arcuate. Poi aveva una pesante cadenza dialettale che dava fastidio. Però era un benestante di famiglia e non avrebbe avuto, contrariamente a me, la necessità di lavorare. Ad ogni modo io mi innamorai di questa ragazza. Il problema era che non riuscivo mai ad incontrarla da solo a solo per farle la mia dichiarazione d’amore. Il tempo passava e le cose continuavano così. Dovevo trovare un’altra soluzione. Pensai allora di sfruttare l’intervallo di tempo di circa venti trenta minuti tra la fine del pranzo e la ripresa del lavoro. In quell’intervallo l’avrei tenuta d’occhio e appena vista sola mi sarei presentato per dirglielo. Ma, come dice il proverbio, l’uomo propone e Dio dispone. Lei stava sempre in mezzo alle sue compagne a saltare a corda o chiacchierare. Fino all’ora della ripresa del lavoro. Non c’era scampo. Allora, un bel giorno d’estate, presi il toro per le corna (o il topo per la coda) e andai verso il gruppo di ragazze che la circondavano ed esse mi videro da lontano avanzare nella loro direzione. Probabilmente capirono al volo che volevo parlare con una di loro e il gioco della corda si interruppe e tutte si misero in attenzione attendendo il mio arrivo. A quella vista pensai innanzitutto di scappare via con la coda tra le gambe (un attacco di timidezza acuta) ma poi pensai che non era bene farmi vedere in fuga dalle ragazze. Comunque rallentai il mio cammino prima baldanzoso. Non era così che avevo immaginato la cosa. Secondo il mio piano, mi sarei avvicinato alle ragazze che intanto avrebbero continuato a giocare, mi sarei accostato al suo orecchio e le avrei sottovoce chiesto di parlarle in privato. Poi ci saremmo discosti dal gruppo, magari dietro un angolo e lì le avrei fatto la mia dichiarazione. Invece le cose stavano andando in tutt’altro modo perché le ragazze, invece di continuare i loro giochi ignorandomi, si fermarono e si disposero tutte in attesa del mio arrivo, tutte con le orecchie ben dritte per sentire cosa avevo da dire e soprattutto a chi di loro. Io continuai ad avanzare, ormai ero fritto, con gli occhi fissi su di lei. Questo fece capire a lei ed alle altre che quello che dovevo dire la riguardava personalmente e non riguardava le altre. A questo punto avrebbero anche potuto allontanarsi discretamente, ma non lo fecero. Non solo non lo fecero ma addirittura si avvicinarono per sentire meglio. Io sono entrato in stato confusionale. La stessa sensazione che ho già descritto quando, prima del servizio militare, sono entrato nella stanza delle tre sorelle per installare il Secondo canale al loro TV e non sapevo più bene cosa dovevo dire. Era una sensazione che già avevo provato. Mi toglieva lucidità e la mia testa andava sottosopra. Mi pareva di udire un rombo nelle orecchie e la vista mi ballava. Comunque dovevo ormai parlare e non so come riuscii a dire che volevo parlarle in privato. Lei mi rispose che quello che dovevo dire potevo anche dirlo lì davanti a tutte. La mia testa si confuse ancora di più e dissi precipitosamente, non ricordo con esattezza se dissi: “ti voglio sposare” oppure se chiesi: “Mi vuoi sposare?” In ogni caso, tale la confusione nella mia testa che mi sfuggì la sua risposta. Comunque, successivamente riuscii a chiederle un appuntamento per Domenica pomeriggio a piazza Carpegna e lei mi disse di si. Io salii allora al settimo cielo, anche ottavo e nono. Bè crepi l’avarizia e facciamo il decimo. Le avevo comprato una scatola di Baci Perugina. Andai all’appuntamento emozionato e mi accingevo ad una lunga attesa, come ero stato abituato dalla mia ex che agli appuntamenti arrivava regolarmente con mezz’ora di ritardo, come minimo. Invece lei comparve in perfetto orario e ne fui piacevolmente sorpreso.

Andammo a fare un giro in macchina e capitati all’Eur andammo a sederci da Corsetti al Vecchia America, che ora non c’è più. Facemmo merenda e parlammo a lungo di noi. Soprattutto lei. Poi d’improvviso, venni attratto dalle sue labbra carnose e le diedi un bacio superficiale. Lei mi disse: “non lo fare mai più”. E difatti…siamo felicemente sposati dal 1970 e abbiamo avuto 3 figli, un maschio (Marco, nato nel 1971) e due femmine (Giulia, nata nel 1975 e Claudia, nata nel 1989).

 

 

 

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